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CI HANNO PRIVATIZZATO ANCHE IL CERVELLO, MA DOBBIAMO PENSARE OLTRE LA CATASTROFE

22 Giugno 2021 | consigli di lettura, Diritti

di Kappazeta Qui il link all’articolo originale

“(…) these are death-times and our side has to win.”
Goodspeed You! Black Emperor, G_d’s Pee AT STATE’S END!

Quello che segue è un tentativo – che avrei voluto più riuscito e più completo – di parlare di due libri che ritengo fondamentali per leggere la complessità del presente e delle sfide che porta (economiche, sociali, politiche, culturali, ambientali) grazie al lavoro chiaro e preciso di storicizzazione che gli autori hanno svolto. Preferisco pubblicarlo in questa forma, anche se forse non rende sufficiente merito alla ricchezza e alla densità dei testi, piuttosto che continuare a lavorarci su con il rischio di non pubblicarlo mai. Il vantaggio del blog è che permette una flessibilità molto più grande rispetto alla scrittura accademica, quindi ne approfitto. I due libri sono consigliatissimi. Del testo di Chamayou esiste una traduzione inglese ma non (ancora?) una italiana.

Negli ultimi mesi, tra impegni e letture accademiche, ho avuto tempo di leggere La société ingouvernable. Une généalogie du libéralisme autoritaire, di Grégoire Chamayou e, qualche mese dopo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi di Marco D’Eramo. Due libri che si completano e si rispecchiano (anche se, con mio stupore, il primo, uscito nel 2018, non è citato nel secondo, uscito nel 2020): entrambi, attraverso pagine di ricostruzioni, fatti, citazioni, raccontano la nascita dell’ideologia neoliberale e la sua attuazione nelle nostre società.

Non si tratta di testi destinati a studiosi di filosofia politica, quanto di tentativi (molto riusciti) di svelare meccanismi e dinamiche di potere e dominio (non a caso parola che dà il titolo al libro di D’Eramo) che operano quotidianamente, intorno a noi, su di noi, sulle persone a noi vicine. I due autori dimostrano che la situazione sociale, economica e culturale del presente non è il frutto di un percorso naturale e inevitabile dell’umanità e nemmeno l’accumularsi più o meno casuale di decisioni separate cronologicamente successive: le società occidentali contemporanee sono il frutto dell’attuazione di un’ideologia precisa, elaborata a partire dagli anni Settanta in particolare negli USA come risposta alle lotte per i diritti che stavano attraversando la società dell’epoca.

È difficile scrivere di questi due libri, perché sono opere molto dense, piene di riferimenti, casi di studio e rimandi, ma cercherò di estrarne alcuni esempi in grado di evidenziare gli aspetti più concreti e quotidiani di come l’ideologia neoliberale domina (nel doppio senso di prevalere, avere potere e di tenere sottomesso) le nostre vite e gli spazi che abitiamo.

Dotata di un apparato di propaganda efficacissimo, che nasce prima nei think tank e nelle fondazioni statunitensi per essere da lì diffuso in università, media e cultura popolare di massa con l’obiettivo di contrastare e neutralizzare ogni spinta critica, l’ideologia neoliberale ha lavorato ferocemente sul linguaggio (come dimostrano molto bene anche i lavori dell’economista francese Jean-Paul Fitoussi).

Il linguaggio non è mai secondario: è attraverso il linguaggio che s’impongono le narrative e dietro di esse le ideologie (…). In Italia le sedi territoriali del Servizio sanitario nazionale un tempo si chiamavano Unità sanitarie locali (Usl). Poi con un decreto il loro nome è stato cambiato in Aziende sanitarie locali (Asl). Dalla U alla A sembra un passaggio da niente, ma in realtà dietro c’è tutta una conversione ideologica.

(D’Eramo, p. 100-101)

L’eufemismo non è solo ipocrisia. È tecnologia di potere, tecnica di comando. È una forma di denegazione, quel discorso che “può dire quel che dice solo in una forma che tende a mostrare che non lo dice”.

(D’Eramo, p. 199)

Car si l’adversaire marque des points, c’est entre autres choses parce que le débat public a été truffé d’”embuscades sémantiques”. Un travail de déminage est nécessaire, un patient effort de reconceptualisation que l’on aurait tort de dédaigner en n’y voyant qu’un vain “pinaillage sémantique”. Définir les mots est un acte politique. Qui en fixe le sens se dote d’un atout stratégique.

(Chamayou, p. 97)

Non sono quindi casuali i riferimenti alla neolingua orwelliana per descrivere come l’imposizione di questo lessico non solo abbia modificato la nostra percezione della realtà attraverso la narrazione sul reale, ma abbia anche e soprattutto limitato la nostra capacità di esprimere un pensiero diverso

perché quello di cui questo dominio ideologico-linguistico cerca di convincerci, prima di tutto è che “there is no alternative”. Tra gli esempi che cita Marco D’Eramo ci sono l’espressione “guerre umanitarie” e la parola “riforma” (“riforma del welfare significa abolizione progressiva delle protezioni sociali; riforma della sanità significa che moriremo senza essere curati”, p. 200); aggiunge poi che “(…) l’eufemismo è la forma di impero che [gli Stati Uniti] hanno imposto al mondo. Intanto perché è un impero che rifiuta di essere chiamato così.”, p. 200).

Un altro elemento discorsivo neoliberale dominante nelle nostre società è il riferimento all’impresa come modello ideale, da applicare a tutti i campi, dal governo delle nazioni alla gestione del sé e della propria identità, con l’obiettivo di mettere ogni cosa a mercato (sanità, istruzione, ricerca scientifica, identità…) e di ridurre tutto a un’unica dimensione economica. Per esempio, che altro senso ha l’introduzione del concetto di “credito” anche in ambito universitario? Scelte lessicale nascondono scelte ideologiche. Lo stesso vale per i discorsi sulla meritocrazia, sul “volere è potere”, sull’auto-imprenditorialità come principio guida dell’esistenza individuale.

Ma questa narrazione ideologica passa anche attraverso un doppio meccanismo economico-linguistico: prima si tagliano le risorse per i servizi pubblici (perché bisogna lasciare spazio al mercato), poi si spinge la narrazione dello stato inefficiente, la propaganda sui diritti presentati come privilegi (fino ad arrivare agli estremi, menzogneri e ridicoli, sui fannulloni che preferiscono il reddito di cittadinanza al lavoro stagionale in questa estate 2021).

In realtà lo stato sociale è già morto nella coscienza di chi ne dovrebbe beneficiare e si è invece lasciato convincere che se uno stato s’indebita, o fallisce, è a causa delle pensioni “troppo generose e troppo precoci”, delle ferie pagate, dei congedi di maternità, del servizio sanitario gratuito, delle spese “eccessive” per l’istruzione.

(D’Eramo, p. 90)

Meno servizi pubblici gratuiti, quindi, e più prodotti in vendita. Questo tocca ogni aspetto della nostra vita; Mark Fisher, per esempio, ne ha analizzato l’applicazione in materia di salute mentale, un processo che ha definito “privatizzazione dello stress”. Tutto sta venendo privatizzato, anche i nostri cervelli, a cui è stata sottratta una ricchezza lessicale e concettuale inestimabile. Ma non basta. Alla riduzione dei servizi pubblici e dei diritti, si accompagna uno slittamento della responsabilità esclusivamente sull’individuo. In anni in cui gli effetti del cambiamento climatico si fanno sentire oltre ogni ragionevole dubbio, il discorso della responsabilità individuale come centro dell’azione per la difesa dell’ambiente avrebbe già dovuto essere ridotto a quello che realmente rappresenta: una percentuale infinitesimale. Se questo non avviene è perché il costrutto ideologico che lo sorregge non è stato inventato oggi, ma è uno degli elementi fondativi del neoliberismo che, per citare Chamayou è, “fondamentalment, un anti-écologisme” (p. 182).

Chi ha diffuso e sostenuto le prime campagne per il riciclaggio dei rifiuti? L’industria delle bevande, negli Stati Uniti, all’inizio degli anni Settanta. La ragione? Dopo aver creato le lattine in alluminio, i produttori di bevande avevano eliminato il vuoto a rendere (la bottiglia di vetro) per ridurre i costi di recupero, promuovendo verso i consumatori la leggerezza, l’innovazione e la libertà della lattina, che avrebbero potuto semplicemente buttare dopo averne consumato il contenuto. Davanti alle proteste degli ambientalisti preoccupati dall’invasione di rifiuti e dei governi locali che in alcuni casi avevano addirittura reintrodotto per legge l’obbligo dei vuoti a rendere, i produttori hanno pensato bene di scaricare la responsabilità della cura dell’ambiente al singolo consumatore attraverso campagne dedicate, come se fosse possibile ridurre il problema dell’inquinamento ai soli rifiuti lasciati in giro.

Ambiente ed economia non potrebbero essere più interconnessi, soprattutto nella crisi climatica che stiamo attraversando. Se il debito è diventato un elemento costitutivo del nostro vivere contemporaneo, è anche perché “non è solo una relazione economica e finanziaria. Il debito instaura, ancor più dello sfruttamento economico, un modo di dominio, definisce un rapporto di potere. È una forma di vassallaggio economico senza alcuna possibilità di emancipazione” (D’Eramo, p. 139). E la natura?

Lo stesso inquinamento ambientale è visto non come un danno che noi infliggiamo al pianeta e a noi stessi, ma come un debito che noi contraiamo con la “natura”, debito che non possiamo o non vogliamo saldare ma – si spera – possiamo riportare, dilazionare, posporre dal domani al dopodomani.

(D’Eramo, p. 156)

In questa situazione, come scriveva David Graeber, non sembra ci sia rimasto altro da pensare, per noi, che la catastrofe, ed è quello che sembra di vedere intorno, nei discorsi, nella percezione collettiva (per quanto frammentata sia), nella produzione culturale.

Ma sia Chamayou che D’Eramo chiudono con un discorso che se non è del tutto ottimista, resta quantomeno possibilista. Il discorso ideologico neoliberale è dominante, certo, e la sua violenza simbolica fa sì che i dominati l’abbiano fatto proprio; a questa violenza simbolica si aggiunge una violenza repressiva contro ogni forma di dissidenza politica e sociale, un “punitive turn” che va avanti da almeno due decenni e che unisce la militarizzazione delle forze di polizia e l’aumento della violenza che questa esercita all’approvazione di leggi che limitano le libertà di espressione, riunione, manifestazione (anche questi elementi teorizzati dagli ideologi neoliberali).

Non tutto è perduto, ci dicono i due autori, il lavoro davanti a noi è quasi infinito e molto duro: pratiche di autogestione, educazione e auto-educazione, prima di tutto, per contrastare la narrazione dominante e crearne di nuove, alternative, perché “una scuola pubblica, universale, gratuita, è il presupposto per l’indispensabile, immane lavoro di rialfabetizzazione politica” (D’Eramo, p. 203). (Ri)alfabetizzazione tout court, vorrei sottolineare, per essere capaci di sfuggire alle gabbie del pensiero imposto dalla neolingua, per immaginare narr-azioni che pensino (e agiscano) oltre la catastrofe.